giovedì 31 luglio 2008

Vacanze

Il blog si prende un mesetto di pausa. In realtà la settimana prossima non sarò ancora ufficialmente in ferie, anzi, tra un po' di lavoro arretrato per l'Ong che mi dà da mangiare e il libro sul Celtic che sto buttando giù insieme all'amico Max Troiani, avrò ancora un bel po' di cose da fare. Dopo conto di ricaricare in fretta le batterie e di tornare operativo verso il 26-27 agosto.
Buone vacanze a tutti!

sabato 26 luglio 2008

Crisi d'astinenza?

Saranno i due mesi senza calcio britannico che mi portano a leggere con estrema avidità i risultati del primo turno della Coppa di Lega scozzese? Un leggero sospetto lo avrei. Però tutto sommato in programma c'erano delle belle partite, al Firhill si è giocato addirittura il derby tra Partick e Queen's Park (poi finito 2-1 per i padroni di casa)!
P.S. oggi ho provato a buttare un'occhiata all'amichevole del Chelsea in Cina - dove copiano pure i crest delle squadre inglesi... Francamente preferisco leggere i risultati di League Cup.

domenica 20 luglio 2008

Calciatori in miniera

Questo articolo è stato pubblicato oggi sul Manifesto.

Non si è ancora capito se l’offerta di 40 milioni di euro l’anno per far giocare l’attaccate camerunense Samuel Eto’o in Uzbekistan fosse una bufala o meno, fatto sta che oramai è sotto gli occhi di tutti come i contratti dei giocatori siano sempre più ricchi e il loro potere contrattuale – soprattutto dopo la sentenza Bosman – sia notevolmente accresciuto rispetto al passato. Tanto per fare un esempio, la star portoghese del Manchester United Cristiano Ronaldo (quello che la settimana scorsa si è definito schiavo perché non libero di andare al Real Madrid) viaggia sui 150mila euro a settimana, premi esclusi. Il monte salari delle grandi d’Europa ha raggiunto cifre iperboliche, mentre le piccole, se si fa eccezione per l’Inghilterra e in parte la Spagna, devono fare di necessità virtù e andare avanti con il poco che passa il convento. E allora ciclicamente si sente parlare dell’esigenza di fissare un tetto agli ingaggi, di copiare il salary cap in voga negli sport professionistici americani.

Se ciò dovesse accadere, per la disperazione dei vari Moratti e Abramovich, almeno oltre Manica si tratterebbe di un ritorno al passato. Per ben sessant’anni, infatti, in Inghilterra è esistito un sistema rigidamente ancorato a un massimo salariale, che nel 1901 era di quattro sterline a settimana e nel suo ultimo anno di vita era arrivato a venti, premi esclusi. Poca roba, tanto che grandi campioni del calibro di John Charles, Jimmy Greaves e Gerry Hitchens appena possibile emigrarono in Italia, allora il sogno proibito dei calciatori britannici. Secondo le stime del sindacato di categoria, nel 1955 i giocatori percepivano in media otto sterline a settimana, tre in meno di quanto guadagnava un operaio qualificato – i cui bonus erano però inferiori. Se non si era campioni toccava arrotondare con qualche lavoretto, anche in prospettiva futura.

Il potere che i dirigenti dei club esercitavano sui giocatori era pressoché assoluto, rafforzato dalla presenza di un’altra regola, quella del retain and transfer system, che dava alla società la possibilità di trattenere un tesserato fin quando lo ritenesse utile alla causa. I contratti erano a vita, non a termine e con tanti zeri. E’ pur vero che il retain and transfer system all’inizio era stato pensato per favorire esclusivamente i club e in particolare quelli più piccoli, che non avrebbero corso il rischio che i giocatori con più talento si concentrassero solo nelle squadre di maggior successo. Un espediente che sottendeva l’intenzione di garantire il più grande equilibrio possibile nelle varie competizioni. Per i calciatori era unicamente un dogma infernale, che cancellava la loro libertà in tutto e per tutto. La rivolta montò inesorabile. La Professional Footballers’ Association nel 1961, guidata dall’ex del Fulham e poi commentatore televisivo Jimmy Hill, riuscì a ottenere l’abolizione del tetto salariale e con la minaccia dello sciopero provò a intaccare anche il retain and transfer system, poi in teoria mandato in pensione dalla decisione dell’Alta Corte di Londra nel caso Eastham. George Eastham, affermato centrocampista del Newcastle, aveva provato in tutti i modi ad abbandonare il club del Nord-Est, che lo voleva suo per sempre. Dopo essere rimasto fermo per un anno, grazie al pronunciamento emesso in suo favore se ne andò all’Arsenal, con buona pace dei dirigenti dei Magpies. Tuttavia il cambiamento fu più apparente che reale. Se per decenni le società non avevano esitato a versare somme sotto banco per aggirare il limite degli ingaggi, dopo il 1961 ci fu una sorta di salary cap tacito che i grandi club imposero per altri dieci-quindici anni – in realtà si sussurra che l’Arsenal lo abbia applicato sino alla fine degli anni Ottanta. Ma questo non andatelo a raccontare a Cristiano Ronaldo e ai suoi compagni di conto in banca.

venerdì 18 luglio 2008

La stazione che non c’è

Lo stadio del Forfar Athletic (quarta serie del calcio scozzese, ma anno di fondazione 1885) si chiama Station Park. Il nome fu scelto per la vicinanza alla locale stazione dei treni. Peccato che dal 1968 la stazione non esista più e che quella più vicina sia a ben 14 miglia di distanza. Però l’impianto è di quelli che meriterebbero un viaggio in Scozia – ok, ci sono tante altre buone ragioni per andare nella terra di Robert Burns... Piccolo e molto old-style, l’attuale capienza è di poco superiore alle 4mila unità, con soli 700 posti a sedere che si trovano nella tribunetta centrale e terraces (gradinate) un po’ vecchiotte che circondano il resto del campo. Sono 120 anni che il Forfar gioca a Station Park. Speriamo che l’aneddoto sulla stazione che non c’è possa durare almeno un altro secolo.

giovedì 17 luglio 2008

Un tuffo nel passato (molto recente)

In attesa dell'inizio della nuova stagione - oddio, in realta' tra preliminari di coppa e Intertoto ci siamo già - riparliamo dell'ultima annata. Tutto questo pippotto per dire che il reportage a seguire, uscito su Calcio 2000 di luglio, riguarda la finale di FA Cup 2007-08...

La lunga giornata della finale numero 127 della FA Cup inizia con un’immagine che dire scontata sembra quasi riduttivo, sopratutto se raffrontata al cliché del calcio inglese tutto ordine e perfezione del nuovo millennio. Ma tant’è, a metà mattinata di un grigio sabato londinese per le strade della capitale inglese ci imbattiamo in vari gruppetti di famiglia. Di tifosi di Portsmouth e Cardiff City, ovviamente. In una Oxford Street ancora non del tutto invasa dai forzati dello shopping c’è il papà con sciarpa e maglietta dei Pompey che porta per mano il figlioletto ancora in età da scuola elementare ma con tanto di cresta blu a risaltare su una chioma pel di carota. A Trafalgar Square udiamo la cantilenante parlata di qualche attempata signora gallese sotto braccio al marito anche lui di blu vestito (i due club hanno gli stessi colori sociali), seguiti da figli e nipoti con bianche pecorelle gonfiabili sotto braccio e dragone rosso dipinto sul volto, in una sana esplosione di orgoglio nazionalista. Insomma, le avanguardie delle due truppe di supporter si godono qualche ora di sano turismo, nella tranquillità di una Londra che sembra far fatica a risvegliarsi dai bagordi del venerdì sera.

Per trovare il grosso dei due contingenti basta spostarsi dalle parti di Baker Street, dove al civico 221 – che in realtà non esiste – Conan Doyle ha immaginato la dimora di Sherlock Holmes. Niente affatto interessati al museo messo su per celebrare il meticoloso investigatore e lo stile di vita dell’epoca vittoriana, frotte di fan invadono i tanti pub della zona, pronti a saltare su una metro che li conduca a Wembley Park. A posteriori potrà sembrare un segno del destino, il vagone del convoglio diretto al tempio del calcio d’oltre Manica verso le 12.30 è tutto occupato dai supporter del Portsmouth. Nessuno sembra teso, vuoi perché pensano di vincere contro avversari meno quotati e arrivati a metà classifica in Chmpionship, vuoi perché si vogliono godere una giornata di festa, il loro momento di gloria. Ridono e scherzano, poi dopo la fermata di Neasden vediamo i loro occhi illuminarsi di gioia come quelli di un bimbetto davanti ai regali sotto l’albero di Natale: hanno appena scorto l’imponente sagoma dell’arco che sovrasta Wembley, il nuovo simbolo che ha sostituito le due torri più famose del calcio mondiale. Subito partono i cori per salutare la terra promessa e ringraziare la loro squadra che li ha portati fin là. Scendiamo dal tube e percorriamo anche noi emozionati l’Olympic Way, l’ampio viale che conduce all’impianto.

Il flusso di supporter si snoda lentamente, tra una pausa per acquistare la sciarpa o la spilletta commemorativa e il programma del match (invero molto esoso) e le immancabili foto ricordo. Per stuzzicare la voglia di un “souvenir speciale”, la Football Association ha posto ai lati della Olympic Way una serie di pannelli di legno con la riproduzione a grandezza naturale di un giocatore di una delle due squadre che alza la coppa. Al posto della testa un foro, dove possono fare capolino i capoccioni dei tifosi di Portsmouth o Cardiff per uno scatto degli amici. Mentre un fan gallese si appresta a farsi immortalare tutto sorridente, ci capita di sentire un caustico commento di un anziano appassionato dei Pompey: “Amico, più vicino di così alla coppa oggi non ci arrivate”. Alla fine avrà ragione lui.

Giunte sotto la statua di Bobby Moore, l’eroe dei mondiali del 1966 che accoglie gli ospiti di Wembley con una posa fiera e orgogliosa, da vero capitano indomabile, le due blue army prendono strade opposte, dirette verso i settori a loro assegnati. Il tutto sotto l’occhio vigile dei tanti bobby impiegati per l’occasione. Il passato turbolento delle due tifoserie, la 6,57 Crew del Portsmouth e la Soul Crew del Cardiff erano fin troppo attive negli anni bui dell’hooliganismo, sembra solo un brutto ricordo. L’eccitazione è a mille, ma sfocia in una calorosa dimostrazione d’affetto per i propri colori e nulla più.

Il pre-partita all’interno del maestoso impianto di Wembley – si vede che è stato realizzato dagli stessi architetti dell’Emirates dell’Arsenal, è del tutto simile, con qualcosa come 30mila posti in più... – è un misto di tradizioni e concessioni alla modernità, con la musica d’antan della banda dei granatieri e l’”inno” della FA Cup Abide with me inframezzati da musica pop sparata a tutto volume e lo speaker a sgolarsi di brutto per fomentare un pubblico già caldo di suo. Ma è la parte finale della lunga cerimonia di avvicinamento al match a riservare le emozioni più forti, con l’entrata in campo della coppa e delle squadre, accolte per la stretta di mano di rito da un Sir Bobby Robson fiaccato dalla malattia contro cui lotta da anni ma non per questo meno combattivo del solito. Lui al vecchio Wembley era di casa. Lì da allenatore vinse una Coppa nel 1978 con il suo “mitico” Ispwich Town e guidò dalla panchina la nazionale dei Tre Leoni dal 1982 al 1990.Agli inni, sia il gallese Lands of my Fathers che l’inglese God Save the Queen, arriva l’unico momento spiacevole della giornata, con qualche fischio di troppo a rimarcare una rivalità tra due popoli che non si sono mai amati troppo. Il resto è ormai storia. La partita dura solo fino al 38° del primo tempo, quando cuore pazzo Kanu segna il gol che regala la coppa al Portsmouth dopo 69 anni (nel 1939 umiliarono il Wolverhampton per 4-1). Dopo la marcatura il Cardiff, che pure nel primo tempo gioca meglio dei rivali, non ce la fa a impensierire più di tanto la coriacea – e difensivista – compagine della costa meridionale dell’Inghilterra. Lo spessore tecnico-tattico dei vari Muntari, Kranjcar, Campbell e Diarra ha la meglio sui Blue Birds, un misto di giovani promesse – in primis il diciassettene Ramsey, per molti addetti ai lavori il nuovo Gerrard – e vecchie glorie sul viale del tramonto – su tutti Hasselbaink, che ci prova senza che il fisico lo assecondi più troppo. Meglio ricordarsi il Cardiff per gli splendidi cori dei suoi tifosi – quello sulle note di Hey Jude dei Beatles cantato a squarciagola è da pelle d’oca. Il sogno dell’accoppiata Sei Nazioni di rugby (il vero sport nazionale gallese) più Coppa d’Inghilterra svanisce sul più bello. L’impresa del 1927 non si ripete. Allora il Cardiff, quotata formazione di Prima Divisione, sconfisse l’Arsenal divenendo l’unico team non inglese a vincere la FA Cup – il tutto in un 23 aprile, il giorno dedicato a San Giorgio, il santo patrono della patria di Shakespeare e Churchill. Finisce con lo sventolio di bandierine – ora vanno di moda, nelle finali anni settanta e ottanta era invece un florilegio di striscioni – e il boato della metà stadio occupata dai seguaci dei Pompey alla chiusura delle ostilità. I mega-schermi di Wembley riprendono le immagini della premiazione – a proposito, per arrivare al palco reale i gradini da salire ora sono 107, non più 39 come nel vecchio impianto – e delle lacrime di John Portsmouth Football Club Westwood. Ovvero del fanatico con treccine bianco-blu, tatuaggi dei Pompey su tutto il corpo e campanella d’ordinanza che in tanti avranno visto durante qualche telecronaca delle partite del Portsmouth – beh, è quanto meno pittoresco, e poi volete mettere l’”aggiunta” al nome, peraltro regolarmente registrata all’anagrafe... Forse però non tutti sanno che nella vita il nostro fa il libraio!

Oltre al trofeo, ai vincitori va un assegno di un milione di sterline, che si va a sommare ai premi riscossi in precedenza, per un totale di poco meno di tre milioni. Poco, se raffrontato alle fortune che si guadagnano ben figurando in Premier o in Champions League. Sarà anche per questo che la Coppa ha perso un po’ del fascino e della passione di una volta, che nei primi turni troppe squadre mandano in campo formazioni ricche di riserve e che gli stadi non sono pieni. Intendiamoci, nulla di paragonabile allo squallore di un ottavo di Coppa Italia, anche perché in Inghilterra la FA Cup si gioca nel fine settimana e non in un infrasettimanale e poi la formula del sorteggio libero e dell’incontro secco con eventuale replay mantengono un equilibrio e un’incertezza che da noi ci sognamo. E’ pur vero che, fatta salva l’edizione 2007-08, negli ultimi anni i grandi club hanno fatto man bassa, a dimostrazione di un certo qual interesse. Che poi per alimentare la famosa “cup magic” ci vogliano finali tra realtà come i Pompey e i Blue Birds ciò è indubbio.

Dopo una buona mezz’ora di festeggiamenti, anche gli ultimi drappelli di fan del Portsmouth lasciano Wembley. Chissà, forse staranno già pensando al loro esordio assoluto in Europa, al primo turno della Coppa Uefa 2008-09. Di sicuro a loro importa ben poco che il club per cui tifano abbia schierato in finale solo quattro giocatori inglesi e che anche la proprietà sia straniera – il presidente è il russo-israeliano Alexandre Gaydamak, figlio di quell’Arcadi qualche anno fa coinvolto in una brutta storia di traffico d’armi in Angola. E’ un altro segno dei tempi, del calcio inglese globalizzato e multi-milionario, di Wembley con l’arco gigante e della FA Cup che non conta più come una volta. Ma che è pur sempre il torneo calcistico più antico della storia.

BOX DERBY BRITISH IN PANCA
Nell’era delle squadre infarcite di giocatori e tecnici stranieri, la finale di Coppa ha visto fronteggiarsi due allenatori inglesi: Harry Redknapp (Portsmouth) e Dave Jones (Cardiff). urioso come entrambi abbiano in comune una brutta esperienza con la giustizia di Sua Maestà, fortunatamente risoltasi senza conseguenze negative. Redknapp, figlio del proletario East End londinese ed ex giocatore e allenatore del West Ham, lo scorso novembre è stato arrestato in quanto ritenuto responsabile di aver corrotto gli agenti di alcuni calciatori. L’incubo nelle patrie galere è durato poco più di 24 ore, poi le accuse non sono state formalizzate, lasciando a Redknapp l’amaro in bocca e la seria intenzione di adire le vie legali. Discreto giocatore di Everton (team della sua città d’origine) e Coventry City, Jones prima di intraprendere la carriera di tecnico lavorò per un periodo come assistente sociale. In quell’epoca subì un procedimento penale per pedofilia. Anche nel suo caso si accertò la totale estraneità ai fatti. Ma quell’accusa infamante lo ha segnato profondamente. La storica finale raggiunta con il Cardiff lo ha senza dubbio ripagato di quei momenti difficili. Peccato la coppa l’abbia potuta alzare solo Redknapp, idolo della tifoseria Pompey, che gli ha perdonato anche un breve intermezzo alla guida degli odiati rivali del Southampton. Forse perché con lui in panchina i Saints sono retrocessi in Championship...

BOX LA COPPA MATTA
L’hanno definita la FA Cup delle grandi sorprese. Non a caso il Portsmouth è stato il primo team non di Londra, Manchester o Liverpool a vincere la coppa dal 1973 (allora toccò al Sunderland sorprendere un Leeds strafavorito). Era dal 1995 che le Big Four (Manchester United, Arsenal, Chelsea e Liverpool) non si lasciavano sfuggire il trofeo – in quell’anno si impose l’Everton. Invece la coppa 2007-08 se la ricorderanno tutti per il Liverpool che prima rischia contro i dilettanti dell’Havant & Waterlooville e poi soccombe all’ultimo minuto ad Anfield con i carneadi del Barnsley. La compagine dello Yorkshire ha poi stupito ancora una volta tutti sbattendo fuori niente meno che il Chelsea. E che dire dell’incredibile match tra Manchester United e Portmouth, perso dai Red Devils dopo un assedio d’altri tempi della porta dei Pompey? Insomma, ad aprile non si è stupito nessuno se a giocarsi le semifinale c’era solo una compagine della massima serie (non accadeva dal 1908). Il Cardiff non ha però imitato il West Ham, ultimo club di Second Division a vincere la FA Cup (correva il 1980).

lunedì 14 luglio 2008

Ma che freddo fa!

Meno dieci per “condotta impropria” e meno venti per essere stata in amministrazione controllata. Totale: meno trenta (punti), una partenza a handicap da brivido – aggettivo mai tanto scontato ma anche, spero, azzeccato. Insomma, le trattative non proprio pulite con gli agenti dei calciatori e una grave situazione finanziaria rischiano di costare al Luton un posto nelle 92 squadre professionistiche inglesi. A breve gli Hatters dovranno lottare per garantirsi la salvezza nella difficile League Two, dove sono cascati lo scorso maggio dopo due retrocessioni consecutive. Chi, come me, se li ricorda protagonisti di discrete stagioni nell’allora First Division – parliamo degli anni Ottanta – non può che essere un po’ dispiaciuto. A leggere la news sul Luton mi è venuto subito in mente che determinate squadre italiane, se giudicate dalla giustizia sportiva inglese, avrebbero rischiato la radiazione, poi penso a come è stato gestito l’affair Tevez (multa salata e nulla più al West Ham) e qualche dubbio mi rimane. Però rimango convinto che certe cose funzionino meglio oltre Manica che da noi.

giovedì 10 luglio 2008

Il silenzio è d'oro

Da Gazzetta.it

LONDRA - Il presidente della Fifa Joseph Blatter si schiera con il Real Madrid nella querelle con il Manchester per il contratto di Cristiano Ronaldo. E' una presa di posizione clamorosa e senza precedenti quella del gran capo del calcio mondiale: "Sono sempre dalla parte dei calciatori, se vogliono andarsene e' giusto che il club li lasci andare - ha detto interpellato sulla vicenda Ronaldo - se non si sente piu' a proprio agio, non va bene ne' per il giocatore ne' per il club". Blatter ha azzardato anche una metafora piuttosto pesante: "Credo che, nei trasferimenti di oggi, ci sia una forma di schiavismo, comprare i giocatori qui e la' per poi rivenderli. Stiamo cercando di intervenire, perche' un giocatore dovrebbe essere libero di andarsene, pagando il proprio contratto".

Premessa: se fossi nella dirigenza del Manchester United venderei Ronaldo al Real per non meno di 80 milioni di euro. Però ciò che più mi infastidisce della dichiarazione di Blatter è quella che viene definita una "metafora piuttosto pesante" dall'autore della nosta d'agenzia. Qualcuno potrebbe far presente al deus ex machina della FIFA quali sono le cifre della povertà globale? Forse lo aiuterebbero a pensare prima di accostare i calciatori professionisti al termine "schiavitù".

martedì 8 luglio 2008

La rabbia di Arsene

È una sorta di nemesi, quella che sta colpendo il “povero” allenatore dell’Arsenal Arsene Wenger. Alcuni importanti campioni stranieri, in forte debito con l’alsaziano per la loro crescita professionale, hanno abbandonato o stanno per abbandonare i Gunners. Via Flamini e con le valige pronte, destinazione Barcellona, Adebayor e Hleb. E Wenger se la prende, dà voce a tutta la sua frustrazione sull’attuale sistema trasferimenti, che rende i calciatori dei veri e propri mercenari, e ammette che fin quando il suo club non sarà rientrato delle ingenti spese sostenute per costruire l’Emirates Stadium quella di cedere qualche pezzo forte ogni estate sarà più di un’eventualità. Forse puntare solo e sempre su calciatori stranieri, per cui è indifferente calcare i campi della Liga piuttosto che della Premier, si sta ritorcendo contro l’allenatore francese? Si potrebbe obiettare che un inglese come Ashley Cole, prodotto del settore giovanile dell’Arsenal, si è forse rivelato il più mercenario di tutti, a causa del suo controverso passaggio al Chelsea. Però rimango l’idea che costruire un team su giocatori autoctoni possa in parte prevenire – o almeno limitare – grandi esodi. Per capirci, uno come Tony Adams una mossa alla Flamini non l’avrebbe mai fatta. O no?

lunedì 7 luglio 2008

E io mi faccio il club!

In anteprima un mio articolo che apparirà nei prossimi giorni sul sito dell'associazione Action Now!

In principio fu l’AFC Wimbledon. Poi arrivò l’FC United of Manchester, adesso esiste anche l’AFC Liverpool. Se non fosse una cosa seria – ok, parliamo di football, che però è pur sempre una disciplina praticata e seguita da centinaia di milioni di persone in giro per l’orbe terracqueo – si potrebbe affermare banalizzando che oltre Manica va di moda la squadra fai-da-te. Ovvero la compagine generata, alimentata e accudita dai fan di qualche grande (Manchester United e Liverpool) o di team capaci lo stesso di fare la storia pur senza avere tutti i quarti di nobiltà. Per questi ultimi si veda alle voci Crazy Gang, John Fashanu, Vinny Jones e finale di FA Cup 1988, vinta dal Wimbledon (è di loro che stiamo discettando, ovviamente) niente meno che a spese dei grandi Reds, dominatori di quel decennio.

Al di là della passione tipicamente britannica per il do-it-yourself (il nostrano fai-da-te), c’è tutta una serie di motivazioni che hanno condotto storici supporter del Wimbledon piuttosto che del Liverpool a metter su un club ex novo. Tagliando un po’ con l’accetta, il minimo comun denominatore è il calcio moderno – anche se a noi piace più l’espressione corporate football – e tutte le storture che si trascina dietro nel suo cammino troppo spesso infarcito solo di vagonate di quattrini, ma privo del rispetto che si deve ai valori cardine del gioco del calcio.

Uno di quei valori è il rispetto della comunità alla quale il club calcistico appartiene. Se a quella comunità del Sud di Londra, vicino al più famoso club di tennis del pianeta, prima levi lo stadio – ok, il vetusto Plough Lane era inadeguato – poi ti fai ospitare da dei vicini i cui supporter ti vedono come il fumo negli occhi (il Crystal Palace), quindi parli di muovere baracca e burattini in Irlanda e per finire trascini la franchigia – pardon, il club – 80 miglia più a nord, beh, sarebbe da matti credere che la stessa comunità accolga la cosa con un fragoroso applauso. Anzi, per dirla tutta dalle parti di Londra Sud si sono proprio alterati, e anche tanto!

Fin troppo tardivo è apparso allora l’atto di contrizione delle autorità federali, che dopo aver dato l’avallo allo sportamento del Wimbledon a Milton Keynes e il cambiamento di nome in MK Dons, aveva promesso che una simile evenienza non si sarebbe più verificata. Per intenderci, niente più mosse stile Nba o Nfl, dove i presidenti possono spostare la squadra altrove, qualora la piazza sia più interessata (e “munifica”) nei confronti del basket piuttosto che del football americano.

Ça va sans dir che alla fine i tifosi di lunga data del Wimbledon, coloro che vivendo a Londra sud affollavano le gradinate del vetusto Plough Lane, poi abbandonato nel 1991, il trasferimento del loro club non l’hanno proprio mandato giù. Per questo si sono decisi a fondare un club tutto loro, rinominato, ovviamente, AFC Wimbledon. Meglio partire dai bassifondi delle leghe dilettantistiche, che doversi piegare all’umiliazione di sostenere una squadra sradicata dal suo luogo d’origine e per giunta con un nome diverso, hanno pensato.

Il motore di tutta l’iniziativa è stato un trust, per la precisione il Dons Trust. L’AFC Wimbledon fin dai suoi primissimi giorni di vita ha riscosso un notevole successo. Per la sua prima partita di sempre, l’amichevole contro il Sutton United il 10 luglio 2003, erano presenti ben 4.500 supporter (la media casalinga di spettatori si è poi stabilizzata sulle 3.000 unità). Sono subito arrivate due promozioni consecutive, alle quali ha fatto seguito un periodo di assestamento per provare ad entrare, o dovremmo dire rientrare, nell’elite del professionismo. Adesso i nuovi Dons, dopo l’ennesima promozione strappata nella stagione 2007-08, giocano in sesta serie (Conference South), “solo” tre gradini sotto la League One, divisione in cui da agosto si cimenteranno i cuginastri del Milton Keynes. Dobbiamo aggiungere che il sogno dei supporter dell’AFC è un bel derby da disputare il più presto possible? No, lo avevate già capito da soli…

Ma lasciamo il Sud dell’Inghilterra per spostarci un po’ più a Nord, nella città culla delle suffragette, dei sindacati e … di tanti grandi campioni del football e di ottimi musicisti. A Manchester, sponda Old Trafford, non ci si è battuti contro un trasloco o un cambio di nome. Ci si è scontrati con una ricca famiglia americana che in tanti non volevano alla guida del club. “Blazer out”. I muri nei pressi dello storico impianto dei Red Devils sono ancora oggi pieni di questo invito non proprio amichevole rivolto alla famiglia Blazer che nell'estate del 2005 ha rilevato la quasi totalità delle azioni del Manchester togliendolo dalla borsa. Un'operazione da 830 milioni di sterline anche se tramite arguzie contabili una larga fetta del totale investito è stata accollata allo stesso Manchester United. Per bloccare il tycoon Malcolm Glazer i tifosi le hanno provate tutte, a volte anche superando i limiti imposti dalla legge e dal buon senso. Proprio loro, che già nel 1998 si erano opposti all'acquisto del club da parte di Rupert Murdoch, questa volta si sono dovuti arrendere. Quando fermarono la scalata del fondatore di Sky dalla loro parte avevano le regole di diritto, tanto che la Commissione di Controllo sulla concorrenza stabilì che il magnate australiano non poteva ottenere il controllo di un club di Premier. La motivazione era palese: si sarebbe creato un forte conflitto di interessi con il Murdoch proprietario del network Sky che sarebbe poi finito per negoziare con il Murdoch presidente del Manchester United la vendita dei dritti televisivi della Premier. Vi ricorda qualcosa?
Nella battaglia contro Glazer le chiassose proteste di piazza fecero il paio con il tentativo dei 32mila membri della Shareholders United di entrare in possesso delle azioni sufficienti per bloccare la scalata. Fu tutto inutile. Così una quarantina di ex frequentatori dell'Old Trafford decise di fare un passo indietro e fondare l'FC United of Manchester. A quegli hardcore fans passare dal “teatro dei sogni” al modesto Giggs Lane di Bury, cittadina ormai fagocitata dalla periferia di Manchester e base delle imprese sportive dell'FC United, è sembrata una logica conseguenza del disfacimento del rapporto di osmosi tra la squadra di calcio e la comunità locale. Così hanno messo su un club tutto loro, che dei Red Devils originali ha i colori, il simbolo (quello in auge negli anni settanta) e il nome. Come scritto nel suo manifesto, il nuovo United è “un club gestito in maniera democratica dai suoi membri e accessibile da parte di tutti gli abitanti della comunità di Manchester”. La società ha uno statuto simile ad un ente no profit, il suo board viene eletto dai 2.500 membri attuali, tende ad incentivare la partecipazione ed il coinvolgimento dei giovani e per far questo predica una politica di prezzi accessibili a tutti. L'avventura degli altri diavoli rossi tra i dilettanti è andata sin qui fin troppo bene. Hanno vinto alla grande i loro primi due campionati, guadagnandosi altrettante meritate promozioni. Nel 2006-2007 nella North West Counties League hanno portato a casa nientemeno che 112 punti, segnando una messe di gol: 157. Due nuovi record di categoria, molto difficili da battere in futuro. La media spettatori è più alta di quella del Bury, che gioca pur sempre nella quarta serie dei professionisti. Grazie alle round rules, meno draconiane nelle divisioni dilettantistiche, l’atmosfera alle partite ricorda più l’Old Trafford anni Settanta o Ottanta piuttosto che quello versione 2007-08. L’accesso al settimo gradino della piramide calcistica inglese è arrivato tramite la vittoria nei play offs della 1st Division North della Unibond League, e le aspettative per la stagione che sta per cominciare sono molto alte. Il ciclone FC United è talmente forte che a qualche realtà del calcio minore deve pur aver fatto storcere il naso. Gli autori dello “scisma” vanno però avanti per la loro strada, fatto anche di buone relazioni con gli sponsor – che hanno prontamente fiutato l’affare – un merchandising di successo e addirittura una TV via internet. Loro negano di voler scimmiottare il “vero” United e di avere particolari fini di lucro legati alle singole attività. Sarà, però leggere sul loro sito dell’esistenza della FCUM TV fa un po’ effetto – sebbene a dirla tutta la TV non è a pagamento.
Rimaniamo nel Lancashire, dove l’avvento del duo di milionari Hicks-Gillet ha prima solleticato l’appetito di trofei dei tifosi del Liverpool, poi scatenato un mare di proteste che non accennano a placarsi. Mentre il progetto di azionariato popolare promosso da alcuni appassionati per riappropriarsi del club sta muovendo timidamente i suoi primi passi, ci sono tifosi che hanno deciso di creare un club tutto loro, sulla scorta dell'esempio tracciato da l'AFC Wimbledon e l'FC United of Manchester. La nuova realtà si chiamerà AFC Liverpool e partirà dai gradini inferiori della piramide calcistica inglese, ovvero dalla divisione dilettantistica denominata Vodkat North West Counties League, Division Two, la stessa dove nel 2005 esordì la compagine anti-Glazer dell'FC United. Il deus ex machina di tutta quest'operazione, Alun Parry, ha dichiarato che la reale motivazione della nascita del nuovo club è la difficoltà di continuare a seguire il Liverpool in Premier, dato l'elevato costo dei biglietti (non tra i più cari della massima serie inglese, per la verità). Insomma, la colpa è proprio del sistema in generale, non è solo del litigioso duo Gillet & Hicks, che nel frattempo continua a farsi la guerra e a destabilizzare un ambiente frustrato dalle incertezze societarie e dall'ennesima stagione di fallimenti in campionato.

Insomma, al di là delle eterogenee motivazioni che portano a compiere un passo così drastico come quello di fondare il “proprio club”, nel panorama calcistico inglese ci sono sempre più realtà, trust in primis, che si battono per cambiare le cose. Il cammino è lungo e molto impervio, per cui non ci resta che augurare un bel in bocca al lupo a tutti e aspettare che quanto prima non spuntino fuori, che so, anche il Chelsea AFC piuttosto che l’Arsenal Gunners FC. Ad maiora!

martedì 1 luglio 2008

Scotland the brave

La Scottish Premier League ieri ha firmato un contratto di 125 milioni di sterline in quattro anni con la Setanta, compagnia televisiva irlandese che detiene una parte dei diritti del campionato inglese e che già da alcune stagioni trasmetteva le immagini della massima divisione scozzese. La notizia sta nel fatto che l’accordo è il più ricco della storia della SPL, una conferma dell’interesse che suscita negli appassionati – sebbene dal 1985 il titolo non si smuova da Glasgow, sponda Celtic o Rangers. Dopo le convincenti prove della nazionale, che ha sfiorato per poco la qualificazione a Euro 2008, e le belle prestazioni dei club, non più infarciti solo di stranieri come andava di moda fino a un due-tre anni fa, sembra che il calcio scozzese stia vivendo un meritato revival. Ora manca solo l’accesso a Sudafrica 2010 e l’Hibernian piuttosto che l’Aberdeen che trionfano in campionato. Forse è più facile che si realizzi il primo dei miei desideri...